La scaletta era chiara fin dall’inizio di questa rubrica: novembre era dedicato alla cronotassi dei parroci.
Al di là del suono inconsueto della parola (che deriva dal greco antico chronos, cioè tempo, e taxis, cioè ordine) il senso è chiaro: è qualcosa che mette in ordine di tempo, cioè in ordine cronologico (appunto): e nel nostro caso i parroci.
Sappiamo che un certo don Pietro Grassi si occupava della chiesa e della gente del nostro paese, nella prima parte del 1300; ma il primo parroco fu Grazio Guinzardis da Rovetta, perché nel 1342, quando Giorgio de’ Zoppis lasciò parte delle sue proprietà alla chiesa di S. Martino di Torre, rendendo così possibile la nascita della parrocchia, pretese (letteralmente) che prete Grazio fosse il parroco, pena l’annullamento della donazione.
Da allora si succedettero in parrocchia 25 parroci, compreso don Leone.
Di molti non sappiamo nulla, anche se i loro cognomi tipicamente bergamaschi ce li rendono in qualche modo famigliari: Arrigoni, Grigis, Borelli, Avogadri, Piccinelli, Carrara, Marinoni, Bolis.
E furono proprio don Pietro Marinoni e don Bartolomeo Bolis gli artefici della costruzione della nuova chiesa parrocchiale.
Nel 1776 l’allora parroco Pietro Poloni divenne prevosto perché il Vescovo Marco Molino aveva concesso alla nuova chiesa il titolo di Prepositurale.
Ed eccoci ai prevosti degli ultimi 150 anni, di cui conosciamo la storia e anche l’aspetto esteriore.
Partiamo da don Luigi Migliorini, di cui il Vescovo Speranza ebbe a dire che “… la sua condotta fu in ogni tempo e luogo edificante, angelica, come pure i suoi sentimenti”. Molto amato dalla popolazione, si adoperò per sottrarre molti giovanotti, di alcuni dei quali conosciamo anche i nomi, alla leva obbligatoria austriaca.
Molto amico del beato Palazzolo, ebbe la gioia di veder nascere proprio a Torre il primo orfanotrofio.
Alla sua morte, il parroco di Ranica lo ricordò così: “…uomo profondamente colto di lettere Divine, di scienza, insigne per pietà, carità e prudenza, ovunque e a tutti caro, veramente illustre per integrità di costumi…”.
Don Gino Cortesi dice di lui che “è un parroco che Torre Boldone deve ricordare e venerare”.
Don Antonio Bana successe al suo parroco: era infatti stato curato con don Migliorini, nel 1883 vinse il concorso (allora c’erano molti sacerdoti, e per essere nominati parroci serviva un concorso!) e rimase a Torre.
Di famiglia benestante e profondamente religiosa (ben 4 fratelli furono sacerdoti) non badò a spese per il bene della sua gente e della chiesa, usando tutto il denaro che i genitori gli avevano lasciato.
Volle il primo Asilo per i bimbi, ma anche un Oratorio (molto semplice) per i giovani, la nuova sagrestia, l’ampliamento della chiesa verso il fondo.
Fece fare la ricca decorazione della chiesa, rifare il pavimento, acquistò arredi liturgici, paramenti e suppellettili che oggi sono il nostro orgoglio.
E più volte ricordò ai fedeli “tutto fu fatto coi vostri soldi: i ricchi non mi hanno dato il becco di un quattrino!”.
Fece in modo che a Torre nascesse subito l’Azione Cattolica, chiamò esperti (come Rezzara) a parlare alla popolazione (come accade oggi…); non amava l’esteriorità ma la sostanza, soprattutto nelle pratiche religiose.
Soffrì come un padre per la partenza di ciascuno dei suoi ragazzi per la guerra e per ogni morte.
Diceva spesso che la guerra l’avrebbe ucciso, e così fu. Morì nel 1918, a 72 anni.
Arriviamo così a don Urbani, che fu parroco per quasi 40 anni: l’affetto e l’ammirazione della gente per il suo parroco si sono concretizzati anche con la dedicazione di una strada. Uomo colto e molto intelligente, aveva anche un carattere schietto e deciso, che lo portava ad atteggiamenti che oggi ci fanno sorridere, ma che all’epoca fecero tremare molte persone.
Amò il suo compito di guida e pastore della sua comunità, cui si dedicò con infinita passione.
Aveva il dono dell’eloquenza, scriveva volentieri e molte volte usò queste sue doti per difendere con forza le ragioni della sua gente, ma anche per ribadire con forza ciò in cui credeva.
Le proteste col Comune per qualcosa che non condivideva, il rifiuto a sospendere devozioni tradizionali (come le rogazioni), la personale lotta contro “l’indecenza” quando, nel primo dopoguerra, aspettava sul sagrato coi chierichetti le ragazze che passavano in bicicletta e poi li spingeva a correre loro accanto per colpirle con dei rametti sulle gambe, o quando osteggiò con fierezza l’arrivo in paese del circolo “dei comunisti”.
Altri tempi, certo; ma erano anche i tempi in cui la campana suonava “l’agonia” a colpi lenti e ritmati e il parroco usciva dalla chiesa per portare il viatico, accompagnato dai chierichetti.
E lungo il percorso il gruppetto si ingrossava di persone che pregando accompagnavano il Signore da un compaesano morente.
In parrocchia erano presenti tutti i gruppi di Azione Cattolica, insieme a confraternite e gruppi.
E la ribellione del Parroco alla requisizione delle campane per farne armi si estrinsecò con un ultimo, struggente concerto registrato e con un messaggio commovente.
Durante il suo servizio come Parroco ebbe la gioia di veder nascere molte vocazioni sacerdotali e ogni seminarista era seguito con affetto e partecipazione da don Attilio, il cui modo di “essere prete” fu il motivo di molte di queste vocazioni.
Don Carlo Angeloni si trovò a reggere la nostra parrocchia per obbedienza, perché la sua umiltà gli faceva temere di non essere in grado di occuparsi di una “borgata periferica alla città”.
Si fece presto amare dalla gente, che riuscì presto a scoprire la delicatezza, la dolcezza e la timidezza che si nascondevano dentro una parvenza di severità e durezza.
Fu generoso con tutti (“le tasche del Sacerdote sono la banca cui attingono i poveri”, diceva), si occupò con passione e amore della chiesa, sostituendo il vecchio e rovinato altare di legno con quello in marmo trovato in un paese del Piemonte.
Volle con forza il nuovo Oratorio ma, in un momento difficile e di grandi cambiamenti come quello che seguì il Concilio Vaticano II, si trovò spesso a fronteggiare chi aveva idee diverse dalle sue.
Quando capì che questo avrebbe potuto “minare l’unità stessa dei sacerdoti”, con una scelta che la dice lunga sull’amore per la nostra comunità, nel 1977 rassegnò al Vescovo le dimissioni; “quanto profondo sia stato il dolore a lasciare la parrocchia è noto solo a Dio” (don E. Artifoni).
Don Carlo tornò a vivere a Bonate e a prestare servizio alla Casa dei Ritiri a Botta di Sedrina fino alla morte, avvenuta nel 1986.
Di don Mario Merelli potremmo evitare di parlare, visto che quasi tutti l’abbiamo conosciuto.
Vorrei solo evidenziare qualcosa che ancora oggi molte persone ricordano di lui, con profondo rispetto e riconoscenza: la dignità nella sofferenza, mai ostentata ma sempre vissuta e mai nascosta.
Don Mario è stato esempio prezioso di come un sacerdote, un cristiano vive la malattia, di come accoglie la morte.
In questo nostro tempo, nel quale la morte è nascosta dietro un paravento, della quale non si parla, la sua morte ha riunito tutta la Comunità attorno al suo Pastore in un abbraccio affettuoso.
Nel 1997 arriva da Bratto, dove era stato parroco per 13 anni, un leone di montagna, che si guarda in giro per orientarsi, capire, conoscere.
Poi, pian piano, mette mano. Oggi, a 150 anni dalla consacrazione della nostra chiesa, Torre Boldone è una realtà viva, forte, ricca di associazioni e gruppi che lavorano in sintonia seguendo il sentiero comune tracciato con chiarezza dal nostro Leone.
E’ il paese degli “ambiti” che animano ogni aspetto della vita e della fede.
E’ il paese della “formazione continua” come si dice oggi: perché i cristiani devono maturare la consapevolezza della propria fede e sempre restare al passo coi tempi, per abitare il paese e il mondo da cittadini degni del Vangelo, attenti a dare risposte alle situazioni e necessità nuove, a precorrere i tempi.
E con un leone a protezione, di chi avremo paura?
Ad multos annos, come dicevano un tempo…
Rubrica a cura di Rosella Ferrari